Il miracolo della Vigilia di Natale
Alda McDonald Strebel
Riesco ancora a sentire la voce tenue di mia madre mentre racconta questo miracolo avvenuto la Vigilia di Natale. Era un’esperienza sacra per lei; la raccontava solo in occasioni speciali, come la sera in cui il mio ragazzo mi chiese di sposarlo.
La storia comincia in una giornata frizzante d’autunno, nel 1928. L’enorme fienile dietro casa nostra, a Heber City, nel nord dell’Utah, era pieno fino al soffitto di fieno fresco e il sottotetto era pieno delle risate e delle grida allegre dei bambini che saltavano in giro. Io ero tra di loro, inconsapevole della tragedia che stava per abbattersi su di noi. Ho trovato una montagna di fieno molto invitante e mi sono preparata a scivolare giù. Improvvisamente sono caduta a testa in giù dentro uno scivolo e sono piombata in una mangiatoia di cemento in fondo al fienile.
Mi ricordo ancora la sensazione spaventosa di riprendere i sensi e l’orribile frustrazione provata nel rendermi conto che non riuscivo a piangere. I miei fratelli sono corsi a chiamare papà. Come sembravano confortanti e sicure le sue braccia solide e robuste, mentre mi sollevava dalla mangiatoia e mi portava dentro casa. Mi depose gentilmente sul mio letto.
Passarono alcuni giorni e il mal di testa non era passato. La situazione si complicò quando mi presi anche un forte raffreddore; mi ricordo ancora oggi l’incubo della febbre alta che sopravvenne. Quando un pomeriggio il dottore venne a fare la sua solita visita, scosse la testa mentre leggeva il termometro e la mamma capì che era ora di mettersi in movimento. Fece chiamare papà e ci preparammo per andare a Provo, a 60 km di distanza, dove potevo essere ricoverata in ospedale. Vicini e parenti si riunirono per offrire la loro assistenza e assicurare che si sarebbero presi buona cura dei miei quattro fratellini.
Il viaggio sulle strade tortuose di Provo Canyon fu lungo e difficile; per la strada papà dovette muovere la sua vecchia Ford Modello T in mezzo a greggi di pecore. Arrivammo all’ospedale quella sera sul tardi.
Sentivo un dolore fortissimo dietro le orecchie e dopo altri due giorni di febbre alta i medici mi operarono e scoprirono un’infezione profonda al mastoide. A quel punto era già entrata in circolo nel sangue. La settimana dopo i chirurghi furono costretti a incidermi il braccio sinistro e la settimana dopo la gamba destra. Per sette lunghe settimane dovetti sopportare l’esperienza estenuante di molte operazioni.
Tre giorni prima di Natale i medici chiamarono in ufficio mio padre e gli dissero che c’erano poche speranze che mi riprendessi. Sapendo della mia grande nostalgia per miei fratelli e la casa, i miei genitori decisero di portarmi a casa per Natale. Trovarono un camion per trasportarmi fino al treno (c’erano pochi camion in tutta la città) e mi misero su una brandina. Sotto le coperte tenevo stretta la mia bambola e quando uscimmo nell’aria fresca della notte mi sentivo istericamente felice. Pensavo che mi sarei lasciata tutto alle spalle uscendo dall’ospedale.
Lentamente il camion arrivò fino alla stazione. Salimmo sul treno, il capotreno infilò una palata enorme di carbone nella stufa panciuta del vagone di servizio e il treno cominciò il viaggio di tre ore fino a casa. Il sonnifero che il medico mi aveva somministrato prima di uscire dall’ospedale ebbe presto effetto e dormii la maggior parte del tempo. Quando il treno si fermò, papà si affacciò alla portiera, poi si curvò sopra di me ridacchiando.
“Non crederai mai a quanta gente c’è là fuori a darci il benvenuto”, disse. “Santo cielo, si direbbe che stia scendendo dal treno una celebrità”. Ridacchiò di nuovo e mi mise un berretto caldo in testa. Mamma mi avvolse nelle coperte fino al mento e la mia brandina fu sollevata e messa sulla slitta di Zio Dode. I campanelli della slitta tintinnavano mentre i cavalli scendevano lungo Center Street sulla strada ghiacciata e liscia.
Quando arrivammo all’angolo della chiesa, la slitta si fermò con un allegro “Oooh!”. In mezzo alla strada c’era un grande albero di Natale, adorno di lampadine elettriche, le prime che avessi mai visto su un albero. Com’erano brillanti e colorate! I miei compagni di classe erano in piedi sotto l’albero e mi accolsero con i versi divini di “Astro del ciel”. Con tutta la fede e la mansuetudine di una bambina sentii l’amore del nostro Salvatore nei cuori di tutte quelle persone così dolci. Le lacrime della mamma si unirono ai fiocchi soffici della neve che mi cadeva sulle guance.
Poco tempo dopo, davanti alla porta di casa, la mamma rideva e piangeva mentre riabbracciava i suoi quattro maschietti. Quattro settimane senza la madre erano sembrate un’eternità per loro. Poi, in un silenzio eccitato, mi fecero strada fino alla mia camera, che avevano adornato con catene di carta rossa e verde. Una grossa campana di carta rossa era appesa all’unico lampadario. “Oh, guarda! Devono essere arrivati gli elfi di Natale!” esclamò la mamma, abbracciando di nuovo i bambini.
Ma quando la fatica del viaggio si fece sentire, mi resi conto che il dolore e la sofferenza non erano terminati. Per la Vigilia di Natale la mia situazione era critica e i medici dissero ai miei genitori che le mie possibilità di superare la notte erano minime. Gli anziani della chiesa vennero da me e per la prima volta i miei genitori ebbero il coraggio di dire: “Sia fatta la tua volontà”.
Dopo la benedizione, su tutta la casa scese una pace speciale. Papà e mamma andarono nel soggiorno con i quattro bambini e li aiutarono ad appendere le calze di Natale. Poi li misero a letto a uno a uno, rassicurandoli che Babbo Natale era in arrivo.
Sapendo che avrebbe avuto bisogno di forza per quello che sarebbe successo, la mamma si lasciò convincere ad andare a letto di sopra. Mi faceva piacere sentirla raccontare di come era sdraiata là, nel silenzio della notte, e della pace che l’avvolse mentre cadeva in un sonno profondo. Si svegliò all’improvviso mentre l’alba si affacciava sul giorno di Natale. Si voltò verso la porta della mia camera, con una preghiera silenziosa sulle labbra. Il papà ne stava uscendo in quel momento, con il viso stanco illuminato da un sorriso di sollievo. Era successo un miracolo, avevo ricevuto la forza di superare la notte. La mamma riusciva perfino a vedere una piccola scintilla di luce nei miei occhi stanchi.
“È passato Babbo Natale?” chiesi.
“Certo che è passato!” esclamò, con le lacrime agli occhi. “Sembra che Babbo Natale sia inciampato giù in sala e tutti i giocattoli son caduti fuori dal sacco”.
“Ma il regalo più bello di tutti”, avrebbe detto la mamma, ogni volta che ricordava la storia, “fu il regalo del Salvatore che aveva santificato la Vigilia di Natale”.
Anche se la malattia mi lasciò un handicap fisico – una gamba molto più corta dell’altra – ho avuto il privilegio di condurre una vita attiva. Nel 1977, prima che mio marito, il Dott. George L. Strebel, ci lasciasse, prestammo servizio in Europa, dove lui era il coordinatore di seminari e istituti in lingua inglese. Adesso ho quattro figli felicemente sposati e quindici bei nipoti.
Quattro anni fa ho avuto un intervento di sostituzione dell’anca e mi hanno aggiunto quasi nove centimetri alla gamba. Adesso cammino senza stampelle e zoppico solo leggermente. E la mia gamba migliora di giorno in giorno – una continuazione moderna del miracolo iniziato quella vigilia di Natale.
Titolo originale: Christmas Eve Miracle. Tradotto da A. Maffioli e S. Marata.
Pubblicato originariamente nel dicembre 1997, quando Alda McDonald Strebel (1913–2008) era un’insegnante in pensione. Ripubblicato sull’Ancora in Inglese il 24 dicembre 2014.
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