A chi appartiene il tempo?
Elsa Sichrowsky
Poco tempo fa, ho confidato a un’amica che mi sentivo oppressa dallo stress e dall’ansia per il mio lavoro. Mi ha suggerito di passare più tempo a meditare sulla bontà di Dio e a studiare la sua Parola come antidoto.
“Ma non ho tempo di farlo!” ho protestato.
“Cosa vuol dire, non hai tempo?” ha chiesto con il sorriso negli occhi.
“Voglio dire che non un sacco di tempo a disposizione!” ho replicato infastidita e perplessa.
Lei ha sorriso significativamente. “Ah, così non possiedi abbastanza tempo? Tanto varrebbe dire che possiedi la luce del sole. Ma non lo diresti mai perché sai che Dio ha creato il sole. Perché non pensi al tempo come a un regalo o un prestito di Dio, invece di vederlo come una cosa tua?”
“Be’, no… è solo che… ehm…”. Ero disorientata. Non mi ero resa conto che avevo pensato al tempo come a qualcosa di “mio”. Ma era vero. L’idea che Dio mi prestasse o mi regalasse del tempo mi sembrava assurda; ero invece abituata a pensare che a volte ero io a dare generosamente a Lui delle preziose porzioni del mio tempo! Più ci pensavo, più mi rendevo conto di come questa idea ridicola fosse radicata nella mia coscienza.
Mi sono resa conto che se credevo sul serio che tutte le cose sono state create da Dio e che senza di Lui niente delle cose fatte è stata fatta,[1] avrei dovuto ammettere che aveva creato anche il tempo. E, in quanto Creatore, gli appartiene tutta la sua creazione, compreso il tempo.
Il giorno dopo, io e la mia amica abbiamo parlato di nuovo. Abbiamo discusso di come l’avere un atteggiamento possessivo riguardo al mio tempo mi avesse portato a concentrarmi solamente sulle mie idee, i miei obiettivi e i miei desideri, di fatto eliminando Dio dalle mie decisioni. Senza il suo aiuto per semplificare il mio orario e il mio stile di vita, facevo fatica a restare al passo con il mio lavoro. Non c’era da stupirsi che fossi stressata e mi sentissi di non “avere” tempo per comunicare con il mio Creatore. Se invece dovessi ammettere che il tempo non mi appartiene, mi consulterei con Dio e seguirei i suoi consigli molto di più – e come risultato diventerei più efficiente e calma.
Quando ho cominciato a mettere in pratica i suggerimenti della mia amica, ho notato che il mio modo sbagliato di ragionare riguardo al tempo aveva influenzato anche il mio modo di vedere la famiglia, il lavoro, le mie cose e molti altri aspetti della mia vita. Per esempio, reagivo stizzosamente nei confronti di familiari, amici e colleghi quando interrompevano il “mio” lavoro – a casa o in ufficio – per chiedere un parere o un aiuto. Invece di offrirlo con allegria ed entusiasmo, mi dibattevo con senso d’irritazione e offesa per la fetta del “mio” tempo che quella persona mi stava rubando. Inutile dire che spesso ero troppo occupata a preoccuparmi per il “mio” tempo perduto, sperando di tornare al più presto possibile al “mio” lavoro importante, invece di prestare la mia piena attenzione ai problemi e alle preoccupazioni di qualcun altro.
Più ci riflettevo, più mi rendevo conto che il mio ragionamento era sbagliato. Se Gesù dovesse apparire in forma fisica e dirmi: “Metti da parte il tuo lavoro e aiuta ____”, metterei subito da parte il lavoro e ubbidirei senza esitazioni, perché sono una Cristiana credente che ha dedicato il cuore e la vita a Gesù, e voglio cercare di imitarlo. Perché, allora, mi è così difficile ubbidire quando Lui usa dei metodi meno drammatici per chiedermi di aiutare gli altri? Ho capito che, invece di essere risentita, dovevo imparare a ubbidire con gioia e poi fidarmi che Lui mi avrebbe aiutato a completare a suo tempo il lavoro interrotto.
Mi sono anche resa conto che l’aggettivo “mio” aveva pervaso gli angoli più reconditi del mio cuore. Invece di essere grata per tutto ciò che mi è stato dato e generosa nel darlo ad altri, mi aggrappavo egoisticamente a tutto quello a cui pensavo di avere diritto. Quando sembrava che Dio non rispondesse alle mie preghiere o esaudisse i miei desideri, m’infuriavo per come il “mio Dio” non faceva quello che volevo, quando lo volevo – come se fosse il mio fattorino. Tuttavia Dio è il mio Signore, colui che mi ha comprato con il suo sangue e mi ricopre ogni giorno di grazia e benedizioni immeritate. Sono io che dovrei servirlo amorevolmente, condividere i suoi regali con gli altri e ricevere con gratitudine tutto quello che viene dalle sue mani – sia il bene sia ciò che può sembrare il male.
Passando più tempo a leggere la Parola di Dio e a meditare su di essa, ho scoperto che Re Davide è un esempio ispirante e convincente di come avere la prospettiva giusta sulle proprietà personali. Dato che era un monarca con potere e autorità sopra una vasta estensione di terra e di popolo, parrebbe comprensibile che avesse permesso a un atteggiamento possessivo di infiltrarsi nel suo cuore. Dopotutto, come re d’Israele aveva potere di vita e di morte sui suoi sudditi. Re Davide, invece, riempì i salmi di affermazioni come “all’Eterno appartiene la terra e tutto ciò che è in essa, il mondo e i suoi abitanti”[2] e “tutto ciò che è in cielo e sulla terra è tuo”.[3] Re Davide comprese che alla fin fine tutto e tutti appartengono a Dio, anche se Lui potrebbe scegliere di darci piccole porzioni della sua terra da gestire per la sua gloria.
Il processo di riaggiustamento del mio modo di pensare non è stato facile ed è tutt’altro che finito, ma sto imparando a dichiarare insieme al salmista: “Tua, o Eterno, è la grandezza, la potenza, la gloria, lo splendore, la maestà, perché tutto ciò che è in cielo e sulla terra è tuo”.
Pubblicato sull’Ancora in Inglese nel settembre 2015.
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