L’impatto di una persona

Agosto 21, 2014

Compilazione

Che aspetto ha l’amore? Ha delle mani tese ad aiutare, ha dei piedi pronti a correre ad assistere i poveri e i bisognosi, ha occhi che notano la tristezza e il dolore, orecchie che odono i sospiri e i lamenti dell’umanità. —Sant’Agostino

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Dopo l’ammutinamento

La storia dell’ammutinamento del Bounty ha affascinato lettori e spettatori per generazioni. Quello che è successo in seguito, comunque, non è molto noto, ma è altrettanto affascinante.

Per motivi ancora in discussione, nel 1789 l’equipaggio della HMS Bounty si ammutinò contro la presunta crudeltà del suo capitano, William Bligh. Bligh e alcuni altri marinai furono abbandonati alla deriva in una scialuppa, mentre gli ammutinati rimasero sulla nave e alla fine approdarono su un lembo di terra isolato e disabitato nel Pacifico meridionale, un’isola di nome Pitcairn. Erano solo in venticinque — nove marinai inglesi, più sei uomini e dieci donne di Tahiti — e poco dopo l’approdo bruciarono il Bounty e si prepararono a stabilire una colonia permanente.

Il loro esperimento, però, si trasformò presto in un disastro. Tra i rudi marinai inglesi e i tahitiani sorsero presto dei conflitti che portarono alla violenza e all’omicidio. Un marinaio scoprì un modo per distillare l’alcol da una pianta locale, trasformando il loro paradiso tropicale in un covo di ubriachezza, vizio e dissolutezza. Alla fine sopravvissero solo un pugno di tahitiani e un marinaio inglese, John Adams.

Un giorno Adams scoprì la Bibbia di bordo, che era stata salvata dal Bounty anni prima e in seguito dimenticata. Cominciò a leggerla e Dio usò le sue parole per farlo pentire dei suoi peccati e portarlo alla fede in Cristo. La sua vita cambiò drammaticamente e quasi immediatamente cominciò a parlare di Cristo ai suoi compagni d’esilio. Il cambiamento nella vita di Adams e il messaggio della Bibbia parlarono al loro cuore e tutti si convertirono. Quando alcuni marinai americani si fermarono sull’isola di Pitcairn nel 1808 — i primi visitatori ad arrivare — trovarono una comunità prospera e armoniosa. […] Dio usò la testimonianza di un uomo, John Adams, per trasformare l’intera colonia. —Billy Graham[1]

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Neemia

Come udii queste parole, mi posi a sedere e piansi; quindi feci cordoglio per vari giorni, e digiunai e pregai davanti al Dio del cielo. E dissi: «Ti supplico, o Eterno, Dio del cielo, Dio grande e tremendo, che mantieni il patto e la misericordia con quelli che ti amano e osservano i tuoi comandamenti, siano le tue orecchie attente e i tuoi occhi aperti, per ascoltare la preghiera del tuo servo, che rivolgo ora a te giorno e notte per […] i tuoi servi. —Neemia 1,4-6

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Qualcuno chiese a Stephen Olford, un noto predicatore ora defunto: “Qual è il segreto per svolgere un ministero religioso?” Al che lui replicò: “Ginocchia piegate, occhi umidi e un cuore rotto”. Neemia pianse desolatamente e digiunò per molti giorni, pregando sopra le rovine della città santa di Dio e sopra il popolo che amava.

Che cos’è che grava così massicciamente su di noi per i bisogni di questo mondo e si manifesta dal profondo del nostro essere? Purtroppo ci sono persone che non solo non si recano mai in quel luogo dentro di loro, ma non possono nemmeno approssimarsi a esso a causa della difese che hanno costruito intorno a sé. Ma i bisogni del mondo possono essere soddisfatti solo da persone con il cuore rotto. Qualcosa dentro di noi deve entrare in risonanza con il cuore di Dio, e finché non avremo sentito nel profondo dell’anima la pressione del suo dolore e della sua compassione, non potremo partecipare pienamente all’opera divina.

[…] Sono uomini e donne normali quelli che Egli usa per i suoi scopi, ed è la condizione del nostro cuore che Egli guarda. Sono questa rottura, questa profondità dell’incontro con il cuore di Dio e il tocco di Dio sul nostro cuore, che ci sosterranno e ci daranno energia. Siamo effettivamente nutriti dalle nostre lacrime.

Neemia era infuocato e spinto a realizzare la volontà divina, non dalla pietà, ma da una pena e una compassione che entravano in risonanza con Dio, diventando così un elemento trainante. Se gli ingredienti della produttività della vita cristiana sono ginocchia piegate, occhi umidi e un cuore rotto, allora, come popolo di Dio, dobbiamo metterci a sua disposizione e, come Neemia, essere motivati dalla compassione a realizzare il piano che Dio ha per questo mondo. —Charles Price

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Amy Carmichael

Amy Carmichael visse per un solo motivo: quello di far conoscere l’amore di Dio alle persone intrappolate nelle tenebre. Era nata in Irlanda Settentrionale nel 1867, la più grande di sette figli. Quando aveva diciotto anni, la morte inaspettata di suo padre ebbe un effetto profondo su di lei, spingendola a pensare seriamente al suo futuro e al piano divino nella sua vita.

A diciannove anni, dopo aver sentito Hudson Taylor parlare della vita missionaria, si rese conto che non poteva esserci niente di più importante che vivere la sua vita per Gesù, il quale, senza alcun bene mondano, aveva dato la vita per lei. Sapeva che la stava chiamando a fare la stessa cosa e a darsi completamente a Lui. Ciò significava che doveva diventare “morta al mondo e ai suoi applausi, a tutti i suoi costumi, le sue usanze e le sue leggi”.

Sotto molti aspetti era una candidata improbabile per un’opera missionaria. Soffriva di nevralgia, una malattia dei nervi che le indeboliva il corpo e le provocava forti dolori, riducendola spesso a letto per diverse settimane. Ciononostante Amy voleva fare la missionaria. Pregò al riguardo e annotò tutti i motivi per cui pensava che non potesse essere volontà di Dio. Uno dei primi nel suo elenco era la sua malattia; ma pregando le sembrò di udire il Signore come se fosse stato presente nella sua stanza; la sua voce le diceva: “Vai”.

Per oltre un anno Amy cercò di trovare un posto in cui andare, ma nessuno la voleva. Alla fine partì per il Giappone in compagnia di altre tre missionarie. Aveva una passione costante per la testimonianza. A bordo della nave perfino il capitano si convertì alla fede cristiana dopo aver osservato la maniera allegra in cui Amy affrontava la sporcizia e gli insetti a bordo.

In seguito la nevralgia di Amy peggiorò a tal punto che il medico le disse che avrebbe dovuto lasciare il Giappone per un clima più adatto. Dopo qualche battaglia interiore, Amy concordò che sarebbe stata meglio in India.

“Ultimamente ci sono stati dei momenti in cui ho dovuto aggrapparmi con tutta la forza a un testo: ‘Quel che si richiede a un amministratore è che ognuno sia trovato fedele’. Lode a Dio, dice fedele, non ‘pieno di successo’”. —Amy Carmichael

Nel 1985, Amy fu incaricata dalla Chiesa d’Inghilterra di andare a Dhinavur, in India. Finì per restarci cinquantasei anni, senza interruzioni, per quanto a volte fosse molto difficile.

Il lavoro missionario in India era rischioso. A ogni conversione di un indù di casta alta seguiva un’ondata di persecuzione. La comunità indù non lasciava nulla d’intentato per rendere la vita difficile ai cristiani. Costringevano le scuole missionarie a chiudere e ne bruciavano altre, vandalizzavano le chiese, picchiavano i missionari e intentavano continue azioni legali.

All’inizio, Amy viaggiò e predicò vestendosi come gli abitanti del posto, abitudine ritenuta vergognosa da tutti gli altri missionari. Indossando un sari e con la pelle tinta di scuro, poteva passare per un’indiana.

Alla fine la maggior parte del lavoro di Amy fu dedicato a soccorrere le bambine destinate dalle loro famiglie a diventare prostitute del tempio. Amy diceva sempre: “Si può dare senza amare, ma non si può amare senza dare”. Viveva questo principio così profondamente che si ficcò in un mare di guai.

Una volta sembrava sicuro che sarebbe stata arrestata e portata in una prigione indiana con l’accusa di rapimento. E tecnicamente lo era — e con recidiva, perché spesso ospitava ragazze fuggite dal tempio. Erano bambine e ragazze dedicate agli dei e costrette a prostituirsi per far guadagnare soldi ai sacerdoti.

Nel corso della vita di Amy, più di mille bambine furono riscattate dall’abbandono e dell’abuso. La conoscevano come “Amma”, mamma in Tamil. Il suo lavoro spesso era pericoloso e stressante, tuttavia essa non dimenticò mai la promessa divina di proteggere lei e le persone sotto le sue cure.

“C’erano giorni in cui il cielo per me diventava buio, a causa di ciò che udivo e che sapevo essere vero. […] A volte era come se vedessi il Signore Gesù Cristo in ginocchio, da solo, come s’inginocchiò molto tempo fa sotto gli ulivi. […] E l’unica cosa che una persona premurosa potesse fare era avvicinarsi in silenzio e inginocchiarsi al suo fianco, così che non fosse solo nel suo dolore per quelle bambine”.

“Vincerci costò a Dio il Calvario. Costerà a noi quel che possiamo conoscere della sua sofferenza, se le persone per cui Egli morì quel giorno dovranno essere vinte”. —Amy Carmichael

Amy morì in India nel 1951 a ottantatré anni. Chiese che sulla sua tomba non venissero messe lapidi; invece, le bambine di cui si era presa cura vi misero una fontana per uccelli con una sola iscrizione: “Amma”. —Peter Amsterdam[2]

 

Come può una persona da sola portare un cambiamento?

Anche le piccole cose che fai vogliono dire tanto. Un po’ di amore va molto lontano! Lo splendore del tuo sorriso, la gentilezza che traspare dal tuo volto, l’influenza che hai sugli altri possono dar luce a tanti e avere un effetto sorprendente su persone che sembrerebbero tutt’altro che impressionabili.

Quando gli altri percepiscono il tuo amore e tu spieghi che è l’amore di Dio, essi pensano: “Forse c’è qualcuno lassù che mi ama davvero!” Allora cominciano a vedere le cose in modo diverso, in maniera più positiva!

C’è tanta gente in cerca di amore! Dappertutto ci sono persone che si guardano attorno alla ricerca di un tenue raggio di speranza, una via di salvezza, un qualche bagliore, un po’ di amore, un po’ di misericordia, un luogo dove possano trovare un po’ di sollievo! Se puoi dimostrare loro che l’amore esiste, potranno credere anche nell’esistenza di Dio, perché “Dio è amore!”[3]David Brandt Berg[4]

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Sono solo una persona, ma sono pur sempre una. Non posso fare tutto, ma posso comunque fare qualcosa; e poiché non posso fare tutto, non rifiuterò di fare quello che posso. —Attribuito a Helen Keller


[1] The Journey (Barnes & Noble, 2006).

[2] Pubblicato originariamente nel novembre 2008, adattato.

[3] 1 Giovanni 4,8.

[4] Pubblicato originariamente nell’aprile 1974, adattato.


Titolo originale: One Person’s Impact. Tradotto da A. Maffioli e S. Marata.
Pubblicato sull’Ancora in Inglese il 28 luglio 2014.
Letto in Inglese da Jon Marc.

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