Non sono stanco

Gennaio 28, 2014

Curtis Peter van Gorder

Non sono stanco. Solo un morto è stanco.
Dammi la forza di continuare il tuo lavoro.
I morti possono forse lodarti?
No di certo, ma le anime viventi sì, io sì.
La vita è troppo breve, perché guardare indietro?
Se guardi indietro, perdi la strada.
Majek Fashek[1]

Tutti a volte ci stanchiamo di lottare quando le cose si fanno difficili, ma come possiamo uscire da quella spirale discendente? — mi sono chiesto.

Durante un recente viaggio in Cappadocia, in Turchia,[2] un mio amico ha suonato la canzone “Non sono stanco”, che ha sparso un po’ di luce sull’argomento e mi ha aiutato a fare dei collegamenti con alcune esperienze che ho fatto mentre ero là. Mi ha colpito il contrasto tra chi tende ad arrendersi facilmente e le persone più resistenti che una volta abitavano in quella regione.

Chiunque vada in Cappadocia vi dirà che è un luogo fantastico e soprannaturale. Le formazioni vulcaniche si innalzano come guglie giganti e s’intrecciano come sculture stranissime. I torrenti scorrono in fondo a gole sovrastate da quattrocento chiese scavate nella roccia dei monti circostanti. Questa zona è stata la casa di varie popolazioni nel corso dei millenni, a cominciare dagli antichi Ittiti. La presenza forse più notevole fu quella dei Cristiani che vissero lì in comunità per molti anni.

Abbiamo visitato una delle città sotterranee più grandi, utilizzata dai primi Cristiani nei primi tre secoli per sfuggire alle persecuzioni romane prima e alle scorrerie arabe poi. In alcuni periodi ospitò fino a diecimila persone. Questa città è un capolavoro d’ingegneria: è disposta su otto livelli, con cucine comunitarie, sale per riunioni, condotti di ventilazione, pozzi, granai, stanze da letto, cantine per i vini e perfino stalle per i cavalli.

Le sentinelle disposte sui monti circostanti potevano avvertire dell’avvicinarsi di invasori usando degli specchi per riflettere i raggi del sole e mandare un messaggio alla postazione successiva. Nelle gallerie sotterranee, delle enormi pietre circolari potevano essere rotolate per bloccare le entrate e proteggere gli abitanti dagli invasori. Alcune aperture erano piazzate strategicamente per lanciare olio bollente o frecce sugli attaccanti. Era una comunità cooperativa alacre, con una vibrante vita di fede — doveva esserlo, per riuscire a sopravvivere.

Oltre a destare stupore, è anche un luogo che induce alla riflessione. È un grande esempio di uno spirito indomito davanti alla persecuzione. I primi Cristiani non erano tipi da arrendersi perché erano cacciati e imprigionati, processati e giustiziati. Sarebbe stato facile per loro arrendersi e dire: “Siamo stanchi di fuggire davanti all’ira di Roma. Ci reinseriremo nella società e rinunceremo alla nostra fede. È tropo difficile andare avanti”. Invece, molti di loro fuggirono in questa zona della Cappadocia, dove non solo sopravvissero, ma prosperarono. Diedero perfino inizio a una scuola missionaria che inviò missionari in molti campi di missione lontani.

Uno dei loro capi, Basilio, disse questo: “I guai di solito sono scope e badili che spazzano la strada a vantaggio di un buon uomo; molti maledicono la pioggia che cade sul loro capo, non sapendo che porterà l’abbondanza che scaccerà la fame”. Basilio e la sua comunità conobbero anche la fame e la carestia. Sopravvissero aiutandosi a vicenda nei momenti di bisogno. Su una delle lapidi ho letto un consiglio: “Se c’è una carestia, dai via metà della tua pagnotta e confida nel Signore per il resto: sia per te, sia per gli altri”.

L’eredità di questi primi Cristiani è ancora viva. Abbiamo visto migliaia di turisti provenienti da molti paesi visitare le chiese e apprendere come i Cristiani vivevano e praticavano il loro culto, ogni gruppo con una guida turistica che dava spiegazioni nella loro lingua. Sulle pareti c’erano parti di affreschi con varie storie bibliche. Mi ha fatto ricordare i versetti nel secondo capitolo degli Atti, quando uomini “da ogni nazione sotto il cielo” udirono “le grandi cose di Dio”[3] nelle loro varie lingue. A volte Dio parla attraverso la lingua universale dell’arte e del posto. Ho visto una signora giapponese, proveniente da un paese che una volta perseguitò i Cristiani, fermarsi a pregare in una delle chiese che abbiamo visitato.

Mentre eravamo seduti in quella chiesetta, sui suoi sedili scavati nella roccia, con un affresco della risurrezione di Cristo, approfittammo dell’ottima acustica per cantare inni e recitare versetti che avevamo memorizzato dal primo capitolo del vangelo di Giovanni: “Nel principio era la Parola e la Parola era presso Dio, e la Parola era Dio”.[4] Le persone che avevano adorato Dio in quel posto probabilmente avevano citato gli stessi versetti duemila anni prima; ciò mi ha fatto pensare che la fede deve rinnovarsi in ogni generazione. La fede non può essere contenuta o conservata perfettamente in chiese scavate nella roccia o affreschi dipinti su una parete, che sono destinati a deteriorarsi. Deve essere viva, deve crescere nei nostri cuori oggi. Gesù ci rammentò che “il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”.[5] Alla donna al pozzo disse che la cosa importante non era il luogo in cui adoriamo Dio, ma il modo in cui lo facciamo: in spirito e verità.[6]

È facile voler rinunciare alla lotta e smettere di nuotare quando l’acqua ci copre la testa. Ho letto storie di persone che stavano per annegare e sentirono una voce udibile dir loro di smettere di fare sforzi e lasciarsi andare, appena prima di ricevere soccorso. Se avessero ceduto alla “scappatoia facile”, non sarebbero sopravvissuti. Invece resistettero e lottarono e sopravvissero per raccontare la loro storia e rafforzare anche la fede di altri.

Forse questo è un buon punto per chiudere con una preghiera: “Signore, non voglio essere stanco, andare in pensione o cadere nella palude della letargia che mi porterà in fretta verso il nulla. Dammi la forza e l’ispirazione di mantenere viva la mia fede. Come hai detto Tu, ‘se abbiamo fede quanto un granello di senape, possiamo spostare un monte’[7] — o viverci dentro, se necessario. Per favore, dacci quella fede, come ci dai il nostro pane quotidiano. Perdonaci le nostre colpe, come noi perdoniamo gli altri, e guidaci lontano dalla tentazione di arrenderci. Tu sei tutto quel che conta, poiché tuo è il regno, la potenza e la gloria in eterno”.

L’eternità è un periodo molto lungo, ma comincia oggi con il non arrendersi e con il fare affidamento sulla sua forza per farcela. “Io posso ogni cosa in Cristo che mi fortifica”.[8] “Non ci scoraggiamo di fare il bene; perché, se non ci stanchiamo, mieteremo a suo tempo”.[9]


1 Dalla canzone reggae “I’m Not Tired”, di Majek Fashek.

2 La Cappadocia è una regione storica nell’Anatolia centrale, in Turchia. Il nome era tradizionalmente usato da fonti cristiane nel corso della storia ed è ancora ampiamente utilizzato come concetto turistico internazionale per definire una regione di eccezionale bellezza naturale, caratterizzata in particolar modo dai camini delle fate e da un retaggio storico e culturale unico. (Brani tratti da http://it.wikipedia.org/wiki/Cappadocia)

3 Atti 2,5.11.

4 Giovanni 1,1.

5 Luca 21,33.

6 Giovanni 4,23–24.

7 Matteo 17,20.

8 Filippesi 4,13.

9 Galati 6,9 NR.


Titolo originale: I'm Not Tired. Tradotto da A. Maffioli e S. Marata.
Pubblicato originariamente sull'Ancora in Inglese il 13 novembre 2013.

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