Gennaio 18, 2025
William B. McGrath
In Sorrows Rejoicing
Quando ripenso ai miei primi anni come cristiano, comprendo meglio i motivi per cui Dio ha permesso che certe afflizioni entrassero nella mia vita. Anche se mi ero impegnato nel servizio missionario e avevo cominciato a studiare regolarmente la Bibbia, c’erano ancora così tante cose da imparare. Le mie aspettative di come potesse diventare la mia vita di cristiano erano piuttosto ingenue.
Immagino che in parte avessi preso alcune delle mie prime e un po’ gloriose aspettative per l’opera missionaria dalle influenze della cultura del mondo. Da allora ho compreso meglio come questa cultura possa inculcare in noi l’idea che le cose che favoriscono il nostro orgoglio e la nostra autoglorificazione sono da ricercare e apprezzare. Sottomissione, mansuetudine e umiltà non sono considerate punti forti, non sono niente di mitico. Così, sembra, ho dato troppa importanza ai successi visibili e alla conquista di tratti caratteriali carismatici e affascinanti. Ho immaginato la mia partecipazione a una notevole opera per il Signore, qualcosa di speciale che avrebbe suscitato l’ammirazione di molti.
Non mi ero immaginato di poter avere alcuni grandi mal di testa e delusioni, né mi ero anticipato il disperato bisogno di adeguare il mio atteggiamento. Non avevo compreso molto bene cosa comportasse il “prendere la mia croce” e “rinnegare me stesso” (Matteo 16:24). Un’altra cosa che non avevo capito era che dando la mia vita a Cristo e sottomettendo la mia volontà alla sua avrei finito per partecipare ad alcune delle sofferenze da Lui patite (1 Pietro 4:13). Come nota positiva, però, sembrava che percepissi che nonostante le perdite terrene mi era stato offerto un dono inestimabile, la “perla di gran valore” (Matteo 13:45-46), il privilegio di essere reso “conforme all’immagine del Figlio” con delle ricompense eterne (Romani 8:29; 2 Corinzi 3:18).
Un’altra cosa che non avevo capito troppo bene e che sto ancora imparando è la pratica biblica di imparare ad aspettare il Signore. Noemi disse a Ruth: “Rimani qui, figlia mia, finché tu sappia come andrà a finire la cosa” (Rut 3:18). Ho sempre avuto l’abitudine di “sistemare” ansiosamente tutto come meglio potevo e appena potevo, anche se significava farlo con un po’ di fretta e tutto da solo. Da allora ho imparato che a Dio importa la mia reazione alle circostanze che ha permesso nella mia vita: se mi lamenterò o se confiderò in Lui e capirò che i suoi piani spesso non sono uguali ai miei.
Lo dice bene questa citazione di Elisabeth Elliot:
Molte volte nella mia vita Dio mi ha chiesto di aspettare, quando io volevo andare avanti. Mi ha tenuto al buio quando io chiedevo una luce. Alle mie implorazioni di una guida, spesso la sua risposta è stata: “Sta’ quieta, figlia mia”. Mi piace vedere dei progressi. Cerco la prova che Dio stia facendo almeno qualcosa. […] Naturalmente, per la maggior parte di noi questo test dell’attesa non ha luogo in una casa vuota e silenziosa, ma nel regolare corso di lavoro, appuntamenti, compere, tentativi di aggiustare la macchina. […] Aspettare il Signore è quasi impossibile, a meno di imparare allo stesso tempo a trovare la gioia del Signore, affidargli ogni cosa, confidare in Lui e restare in silenzio. […] La vera attesa non è fare niente. […] Una delle discipline della vita spirituale a cui la maggior parte di noi trova difficile sottomettersi è l’attesa. Nessun’altra disciplina rivela più di questa la qualità della nostra fede.[1]
Tutti abbiamo progetti e altre cose che desideriamo vedere completati, ma i nostri conseguimenti spesso sono messi in attesa. Durante tutte le mie attese, però, ho imparato a coltivare la fiducia e l’aspettativa di una risposta da Lui al momento che ritiene giusto. Salmi 31:19 mi promette che Dio riserva grandi bontà a quelli che lo temono e confidano in Lui. Isaia 64:4 e 1 Corinzi 2:9 sono due promesse che sembrano andare insieme come un paio di guanti. Ci dicono entrambi che Dio ha preparato cose meravigliose, al di là di ciò che abbiamo visto o udito; in Isaia per quelli che sperano nel Signore e in 1 Corinzi per quelli che lo amano.
La vita mi ha destinato alcune sofferenze che non avrei mai potuto, né dovuto, immaginare prima. In mezzo a tutta la sofferenza, io aspiro a ubbidire all’ingiunzione del Signore di “farmi coraggio” (Giovanni 16:33) e anche a prendermi a cuore l’esempio di Paolo: “[Di queste cose] non tengo alcun conto” (Atti 20:24) e “Ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che sarà manifestata in noi” (Romani 8:18). Come poteva dirlo, Paolo? Deve aver sperimentato la bontà e la benevolenza del Signore (Salmi 63:3; 17:7; 36:7).
La Bibbia ci dice che Gesù imparò l’ubbidienza per mezzo delle cose che soffrì (Ebrei 5:8). Ha senso, quindi, che anche noi dovremmo sopportare qualche sofferenza per imparare l’ubbidienza e che, per ricevere le benedizioni alla fine, dovremmo sforzarci di sopportarla come Gesù sopportò la sua.
Ognuno di noi può subire sofferenze, afflizioni e dolori, ma possiamo avere la certezza che Dio è con noi quando le affrontiamo e che gli dispiace per noi (Ebrei 4:15). La nostra risposta è offrire a Lui queste avversità e continuare a fidarci, come meglio possiamo, che può darci la grazia di superare le sofferenze come fece Lui e di trionfare alla fine.
Le gemme più rare sopportano l’abrasione più forte. Noi siamo il prodotto di Dio.[2]
Il cristianesimo non è cosa da deboli, per quanto il mondo voglia farcelo credere. È per chi ha il coraggio di umiliarsi. È una porta piccola che dobbiamo attraversare [ma] la porta si apre su un luogo molto spazioso.[3]
Pubblicato originariamente sull’Ancora in inglese il 24 aprile 2024.
[1] Elisabeth Elliot, A Lamp Unto My Feet, giorno 24, 1985.
[2] Elisabeth Elliot, The Path of Loneliness, 1991.
[3] Elliot, The Path of Loneliness.
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